[FuoriFuoco] Intervista a Sarker Protick

Sarker Protick_Sahbag Uprising_014

© Sarker Protick

Recent interview on Archivio Caltari by Chi è Alessandro

Sarker Protick è un fotografo documentario con base a Dhaka, Bangladesh. Dopo aver completato gli studi di marketing, ha studiato fotografia presso Pathshala – South Asian Institute of Photography. In seguito ha frequentato la facoltà  “New Media Journalism” presso l’Università della Virginia e “Documentary photography” alla University of Gloucestershire, UK.

Nel 2012 Sarker ha vinto il “Prix Mark Grosset pour les écoles internationales de photographie” e il World Bank Art Program. Ha inoltre esposto al Chobi Mela International Festival of Photography, Noorderlicht Photo Festival, Photovisa Festival, Organ Vida Festival della Fotografia, Dhaka Art Summit, Tokyo – the month of photography e al Festival di Promenades photographiques. Il suo lavoro è stato selezionato per la monografia  Pathshala “Under the Banyan Tree“. È stato scelto dal British Journal of Photography come “One to Watch” nel 2014 .

Sarker è docente presso Pathshala South Asian Institute of Photography.

 

Dalla tua biografia ti si potrebbe definire un cittadino del mondo: come fotografo ti sei formato in Bangladesh e poi hai approfondito i tuoi studi e lavorato in diversi paesi, negli Stati Uniti, in Europa…

In virtù di tale esperienza volevo sapere se per te esiste o sia corretto parlare di una “scena asiatica” della fotografia, oppure le nuove tecnologie in un mondo globalizzato hanno contribuito ad uniformare delle peculiarità locali.

Beh, quando si parla di Asia ci si riferisce veramente a un contesto grande. Nel caso specifico in Bangladesh molte cose accadono da un punto di vista fotografico. Abbiamo una delle migliori scuole di fotografia al mondo, “Pathshala”, poi c’è uno dei festival fotografici più interessanti, “Chobi Mela” festival. Inoltre ci sono dei fotografi che con una voce davvero unica raccontano storie molto interessanti.

Invece su un piano di percezione direi che oggi il mondo occidentale guarda con più attenzione al nostro lavoro, grazie al fatto che la fotografia è diventata oramai un medium globale, questo per merito di internet e delle nuove tecnologie, inoltre c’è anche una certa “domanda” dall’occidente. Per qualche ragione le storie che riguardano disastri e calamità e le tragedie sono sempre molto richieste. Ma ci sono anche molti fotografi che lavorano su progetti sperimentali o storie personali che penso debbano ancora essere riconosciuti e apprezzati.

Organ Vida V005

© Sarker Protick

Riguardo alle cose che accenni sulla richiesta di storie di disastri e l’estetica dell’orrore di un certo fotogiornalismo, quest’anno il World Press Photo ha premiato la foto di John Stanmeyer, assai lontana da un certo tipo di sensazionalismo visivo. Che idea ti sei fatto a riguardo? Ti è piaciuto qualcosa in particolare tra le opere premiate?

Sì, ho visto la foto dell’anno, è una scelta molto diversa dalle altre che abbiamo visto in passato. La mia immagine preferita è “Final Embrace” di Taslima Akhter. Penso sarà l’immagine più forte che vedremo per molto molto tempo.

Sarker_Of River And Lost Lands_004

© Sarker Protick

Ho notato che nessuno dei lavori visibili sul tuo sito presenta un testo di accompagnamento, né didascalie. Immagino che questa sia una scelta consapevole e precisa su un’idea di autonomia del linguaggio fotografico.

Quanto è necessario per un fotografo affidarsi al linguaggio testuale come strumento per veicolare completamente un’idea di progetto? Su questo c’è una differenza tra progetti di fotografia documentaria e progetti di ricerca personale?

Si, ovviamente si tratta di una scelta consapevole, non sento la necessità di aggiungere didascalie e testo a una storia. Non ne vedo alcuna necessità e del resto difficilmente leggo i testi di altri fotografi. Ti faccio un esempio: in uno dei miei lavori c’è una fotografia di una televisione, è capitato che mi sia stata richiesta una didascalia e questo mi ha creato molta confusione su cosa scrivere, è come voler spiegare un verso di un poema!

Comunque tutto ciò può variare da lavoro a lavoro, a volte il testo ha la stessa importanza delle immagini, e mi vengono in mente i lavori di Duane Michals, le sue parole sono davvero potenti. Oppure se guardi “One Cat Three lives” di Hiroyuki Ito, in questo caso il testo contribuisce insieme alle immagini a creare delle emozioni e quindi diventa narrativo.

Wind

© Sarker Protick

“What remains” è un lavoro molto forte che affronta il tema della malattia e del dolore. Mi sono venuti in mente alcuni dei lavori più noti sullo stesso tema, come “The Julie Project” di Darcy Padilla, “Lidia, the Sky is Falling” di Maurizio Cogliandro, “MiRelLa” di Fausto Podavini.

Pensando a questi lavori e confrontandoli con il tuo emerge subito una differenza nel modo di rapprensentare tali storie anche solo da un punto di vista formale. Da un lato una visione del rapporto dolore/malattia derivante dalla cultura occidentale, che potrebbe manifestarsi nella scelta del bianco e nero forte e di contrasti accentuati per esempio, dall’altro il tuo lavoro che sembra trascendere il dolore per interrogarsi su una possibilità altra. Questo potrebbe inquadrarsi come presupposto culturale? Riformulando il tuo titolo, “cosa rimane”?

Il dolore e la malattia sono solo una parte di questa storia. La famiglia, le relazioni e la morte per me rappresentano gli aspetti centrali e importanti. Ho deciso di non mostrare troppo su cosa stessero attraversando i miei nonni, in special modo dopo che mia nonna si è ammalata. Alla fine, quando le sue condizioni sono peggiorate, ho smesso di farle fotografie… è stata una scelta deliberata.

Riguardo la scelta del colore e l’approccio formale potrei dire che è stata soprattutto una scelta estetica, non ha nulla a che fare con dei miei riferimenti culturali. Per i lavori da te citati, sebbene siano in bianco e nero, sono molto diversi tra di loro e secondo me in questo caso ogni scelta è riconducibile al gusto personale o estetico.

Sarker Protick_What Remains013

© Sarker Protick

Il fotografo italiano Guido Guidi afferma che il termine paesaggio sia stato corroso dall’uso: “è un termine con troppi significati, anche retorici, decisamente consumati”. Che cos’è per te il paesaggio?

Sono assolutamente d’accordo. Spesso le persone associano il paesaggio alla natura, le montagne, i fiumi, ecc. Devo dire che non sono troppo a mio agio con tutto ciò. Per questo prediligo l’utilizzo della parola “spazio” piuttosto che paesaggio. Cerco cose in un certo spazio, in una stanza o lungo un fiume. Lo spazio implica capire anche come le persone e le strutture sono inseriti in esso, questo rappresenta la condizione umana, a volte fisica, a volte emotiva.

In “Some place else” ho lavorato in un terreno aperto nel mezzo di una metropoli molto affollata, Kolkata. In realtà non percepisci esattamente dove sei, ma molte persone attraversano questo terreno, proprio perché è situato in una città, è affascianante.

Sarker Protick_Some Place Else_006

© Sarker Protick

Viviamo in un’era in cui il progresso tecnologico mette a disposizione dispositivi fotografici sempre più incredibilmente sorprendenti, apparecchi professionali molto sofisticati che producono immagini perfette e ingannevolmente “iper-reali”. Nello stesso tempo su larghissima scala c’è una diffusione di massa di immagini digitali con effetti e imperfezioni tipiche dell’analogico d’annata (sfocature, vignettature…) prodotte da software, come Instagram, e da hardware altrettanto sofisticati.

Mi sembra ci sia una sorta di contraddizione, o quanto meno confusione: mettendo da parte per un momento le mode, l’utente comune percepisce una sorta di aura di autenticità nell’immagine attraverso l’imperfezione posticcia della fotografia lo-fi numerica.

Che tipo di lettura dai a questo fenomeno?

La tecnologia ha sempre mutato lo scenario della fotografia. Dalla lastra di vetro ai rulli 35mm, poi il digitale. Ecco, ora è il momento di questi telefoni/apparecchi con filtri stravaganti. A volte penso che queste immagini “fancy” rappresenteranno la nostra generazione tra qualche decade, proprio come al giorno d’oggi guardiamo le vecchie fotografie in bianco e nero del secolo scorso. Gli album di famiglia saranno rimpiazzati da account su Instagram, ahahah!

1962735_10151937145627467_1668708469_n

© Sarker Protick

Sempre riguardo Instagram, molto si è detto della nomina di Michael Christopher Brown presso l’agenzia Magnum. Questo fatto ha avuto senz’altro il merito di sdoganare l’utilizzo dei foto-fonini da un ambito prettamente ludico a uno professionale… ancora una volta liberare il giudizio dall’utilizzo del mero strumento per focalizzare l’attenzione sulla consapevolezza e il contenuto. Per te, in qualità di utente Instagram e come fotografo strutturato, quali possibilità espressive mette in gioco un software come Instagram?

Penso che la storia sia quello che conta. Se qualcuno racconta una storia interessante con Instagram e tutto ciò si sposa con il contenuto, allora va bene. Purtroppo questo accade molto di rado, non trovi?

Per me Instagram è una cosa divertente. Posso fare davvero quello che mi sento ogni volta che voglio, e questo grazie al fatto che il telefonino è sempre con me. Con la mia attrezzatura professionale questo non accade, un grosso svantaggio! Comunque per i miei lavori personali utilizzo sempre quest’ultima.

1623568_10151918633342467_1236853618_n

© Sarker Protick

Il tuo lavoro “Lumiere” affronta in maniera diretta la domanda sull’essenza stessa della fotografia. Vuoi dirmi qualcosa su questo progetto?

Qualunque cosa venga fotografata si cerca comunque di farlo con una luce buona. Ho sempre percepito la luce come un qualcosa di magico. In questo caso piuttosto che cercare dei temi da fotografare ho deciso di focalizzare lo sguardo sulla luce o qualunque cosa io possa interpretare come tale.

Sarker Protick_ In Midnight Black_01

© Sarker Protick

Puoi consigliarmi un fotografo emergente il cui lavoro ti ha colpito recentemente?

Beh, non so se emergente è la parola giusta, visto che ha già fatto molto… Sono un grande fan di Cemil Batur Gökçeer. Il suo lavoro è davvero strano, ossessionante e misterioso. Cemil ha davvero una visione unica. Dovrò scrivergli un giorno per fargli sapere quanto ammiri il suo lavoro.

http://www.archiviocaltari.it/2014/02/28/fuorifuoco-intervista-sarker-protick/